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Il bambino naturale - consigli a genitori e figli


Al primo posto spicca la Norvegia; all’ultimo l’Afghanistan.

Una donna norvegese che decidesse di partorire oggi avrà deciso il tempo giusto per una gravidanza dopo aver ricevuto 18 anni di istruzione alla contraccezione e dopo aver avuto un controllo completo sulla propria vita sessuale.

Dopo la nascita, assistita da personale sanitario, potrà godere del congedo di maternità tra le 46 e le 56 settimane. Molto difficilmente il suo bambino morirà prima dei cinque anni. E se tutto va bene, lei vivrà fino a 83 anni.

Una donna afghana, lo stesso giorno ha un alto rischio di morire durante il parto (una su otto muore di complicanze, prima o dopo il parto), che raramente (14%) sarà assistito. Questa donna, che è andata a scuola solo per cinque anni e non ha avuto accesso ai contraccettivi moderni (solo il 16% li usa), vivrà quasi la metà che in Norvegia: 44 anni. Durante la sua vita, probabilmente subirà la perdita di almeno uno dei suoi figli e se non si sono ammalati, entro i cinque anni di età, di qualche malattia facilmente prevenibile.

Questa è la semplice relazione che permette di disegnare l’ indice annuale pubblicato dalla ONG Save the Children che mostra, per l’undicesimo anno, i migliori e i peggiori Paesi al mondo dove essere una madre. La differenza tra vivere in Norvegia o in Afghanistan, il primo e l’ultimo classificato quest’anno è misurata da indicatori di salute, dell’istruzione o delle condizioni economiche delle madri e dei bambini.

Dopo la Norvegia troviamo l’ Australia, l’Islanda, la Svezia, la Danimarca, la Nuova Zelanda, la Finlandia, i Paesi Bassi, il Belgio e la Germania. L’Italia è diciassettesima tra i 43 che compongono il gruppo dei Paesi più sviluppati. Dei 160 paesi nella lista (compresi quelli per i quali non esistono dati sufficienti), l’Afghanistan, il Niger, il Ciad, la Guinea-Bissau, lo Yemen, la Repubblica Democratica del Congo, il Mali, il Sudan, l’Eritrea e la Guinea Equatoriale sono i peggiori.

Tra i paesi sviluppati, salta all’occhio quel 28esimo posto degli Stati Uniti. Il rischio di mortalità materna (una su 4.800) e la mortalità dei bambini prima di cinque anni (8 su 1000 nati vivi) sono tra i più alti del mondo sviluppato, secondo il rapporto della Ong americana. Save the Children sottolinea anche come la politica degli Stati Uniti sul congedo di maternità sia molto meno generosa rispetto a quella dei Paesi ricchi.

Anche se queste condizioni sono migliorate, le madri dei paesi in via di sviluppo “sono esposte a rischi molto maggiori per la loro salute e quella dei loro figli“, afferma in un comunicato Mary Beth Powers, responsabile della campagna per la sopravvivenza dei neonati e dei bambini. Le prospettive nei 10 Paesi in coda sono tristi: una madre su 23 morirà per cause legate alla gravidanza. Un bambino su sei morirà prima del quinto compleanno e uno su tre sarà malnutrito, senza pensare che quasi il 50% della popolazione ha difficoltà di accesso all’acqua potabile.

Il rapporto completo, intitolato State of the World’s Mothers 2010, ricorda “la disperazione umana e le opportunità perdute” che si celano dietro i numeri e che “richiedono che si forniscano gli strumenti di base per le madri per rompere il ciclo della povertà e migliorare la qualità della vita, quella dei loro figli e delle generazioni future“. Uno di questi strumenti è l’educazione delle donne, che, secondo Save the Children, dà la possibilità alle mamme di proteggere la propria salute e quella dei bambini che necessitano di cure specialistiche.

“Donne istruite tendono a sposarsi più tardi e hanno meno figli, più sani e meglio nutriti“, si legge nella relazione. L’ONG raccomanda inoltre la formazione degli operatori sanitari, soprattutto delle ostetriche. La relazione ricorda che sono necessari 4,3 milioni di specialisti sanitari nei paesi in via di sviluppo per raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. L’organizzazione consiglia inoltre di incoraggiare le donne a specializzarsi in questo lavoro e di svilupparlo soprattutto nelle comunità più remote.

Fonte: Giornalettismo.com

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