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Il bambino super protetto: l’esempio del parco giochi ”The Land”

Schermata 2016-01-11 alle 17.57.40N.B: questo testo di Hanna Rosin  è la 1° PARTE di un articolo più lungo che abbiamo chiamato “Il bambino super protetto”. Ne pubblichiamo uno alla settimana (in totale 4 parti).

Se vuoi leggere la 2° PARTE “Riflessioni sull’educazione “al rischio” e bambini super protetti: tra controllo e libertà” clicca qui

Se vuoi leggere la 3° PARTE “I nostri bambini sono super protetti? Generazioni a confronto” clicca qui

Se vuoi leggere la 4° PARTE “ I figli crescono troppo in fretta? Sì, e troppo “super protetti”” clicca qui

 

L’ansia di sicurezza ha spogliato l’infanzia dell’indipendenza, della possibilità di correre rischi, e della scoperta – senza renderla più sicura. Un nuovo genere di parco giochi indica una soluzione migliore.

Un trio di ragazzini percorre a passo pesante la lunghezza di una recinzione in legno, su e giù, gridando come imbonitori da fiera: “The Land! Apre fra mezz’ora!” In fondo a un sentiero e dall’altro lato di uno spiazzo erboso, Dylan, 5 anni, riesce a sentirli attraverso la finestra del soggiorno di sua nonna. Tenta di immaginare quanto sia mezz’ora e se riuscirà ad aspettare tanto. Quando alla fine il pesante cancello si apre, Dylan, i ragazzini e una dozzina di altri bambini si precipitano verso i loro anfratti preferiti, per quanto si fatichi a capire come facciano a muoversi tanto abilmente in mezzo al caos.

“È una discarica?” chiede mio figlio Gideon, 5 anni, che mi ha accompagnata nella visita. “Non proprio”, gli rispondo, anche se è esattamente a una discarica che si ispira. The Land è un parco giochi che occupa quasi un acro di terreno al confine estremo di un tranquillo agglomerato urbano nel Galles del nord. Ha solo due anni ma nessun segno tradisce la sua novità e potrebbe essere qui da decenni. Il terreno è chiazzato di fango e uno dei suoi margini scende ripido verso un torrente sul cui argine è incastrata una grossa barca di plastica sbiadita che la maggior parte delle persone considererebbe da buttare. Il centro del parco giochi è dominato da un’alta pila di copertoni che si abbassa sempre più mentre una ragazzina dai capelli rossi e i suoi amici fanno rotolare i pneumatici giù per la collina e fino al torrente. “Perché fate rotolare i copertoni nell’acqua?” chiede mio figlio. “Perché sì” replica la ragazzina.

 

È ancora mattina, ma qualcuno ha già acceso un fuoco dentro un bidone di latta che è nell’angolo, forse perché è fine autunno e fa un freddo umido, o, è più probabile, perché qui i bambini amano accendere fuochi. Tre ragazzi si sistemano sulle uniche sedie dei dintorni che non sono rotte; sono i più grandi e nessuno si lamenta. Uno di loro accende la radio – Shaggy canta “Honey came in and she caught me red-handed, creeping with the girl next door” – mentre gli altri si controllano le tasche per verificare che ci siano ancora tutte le lattine di soda e le barrette di cioccolata. Accanto, una coppia di ragazzini si cimenta in rovesciate pazzesche su una pila di materassi luridi che fanno da trampolino. All’altro capo del parco, una dozzina di bambini più piccoli saetta dentro e fuori una grossa struttura fatta di pallet di legno ammonticchiati gli uni sugli altri. Di tanto in tanto, un gruppetto butta giù qualche pallet – giusto per il gusto di farlo, oppure per costruire qualche nuovo genere di scivolo, di fortino o di struttura non meglio identificata. Chi venisse domani potrebbe trovare una topografia di The Land del tutto nuova.

 

A parte alcune pareti illuminate da graffiti, non ci sono colori brillanti, né altro che appartenga al tipico pesaggio da parco giochi: nessuno scivolo di metallo lucido sormontato da un volante rosso o da strutture per giocare a tris; nè gialle tavole oscillanti fissate a una zavorra centrale per essere sicuri che nessuno cada; nessuna altalena chiusa a cestino di gomma per i più piccoli. C’è, però, una corda logora che oscilla sopra al torrente e ti deposita sull’altra sponda, se riesci a spingerti tanto in là (altrimenti ti deposita dritto nel torrente). I veri giocattoli (un piccolo elefantino di pezza e un Winnie the Pooh) vengono ignorati, uno è con la faccia nel fango, l’altro seduto dietro una sedia di plastica verde. Oggi, i bambini sembrano eccitati da un deambulatore donato da un anziano del vicinato, e riconvertito, a seconda dei momenti, in uno scooter, in una prigione o in un attrezzo ginnico.

 

The Land è un “parco avventura”, sebbene il termine ricordi forse troppo i parchi divertimento a tema perché se ne possa cogliere l’atmosfera. Nel Regno Unito, questi parchi divennero popolari negli anni ’40, risultato degli sforzi di Lady Marjory Allen di Hurtwood, architetto paesaggista e sostenitrice dei bambini. Lady Allen era delusa dai parchi giochi che in un documentario descriveva come “spiazzi d’asfalto” con “qualche dotazione meccanica”. Voleva disegnare parchi con parti mobili che i bambini potessero manipolare e spostare a piacimento, per creare strutture proprie e improvvisate. Ma, cosa ancor più importante, voleva incoraggiare “un’atmosfera libera e permissiva”, con la minor supervisione possibile da parte degli adulti. L’idea era che i bambini dovessero far fronte a “rischi davvero pericolosi” dal loro punto di vista, per poi superarli da soli. Era questo, secondo lei, che avrebbe sviluppato il coraggio e la fiducia in se stessi.

Erano parchi insoliti, ma in linea con le aspettative culturali del secondo dopoguerra a Londra. I bambini che avrebbero potuto trovarsi a combattere una guerra una volta cresciuti, non erano protetti dal pericolo, ci si aspettava anzi che lo affrontassero con sicurezza e persino spavalderia. Oggi, un parco simile è talmente fuori sintonia con le norme genitoriali della classe borghese abbiente che quando, al mio ritorno, ho mostrato ad altri genitori un video dei bambini accovacciati nel buio alla luce dei falò, la frase più comune è stata: “è un’assurda follia!”. (I genitori della classe lavoratrice sono anch’essi più o meno sulla stessa lunghezza d’onda ma di solito esercitano un controllo minore – spinti dalla necessità e forse da un maggior rispetto per la durezza). Questo spiegherebbe perché sono rimasti così pochi parchi del genere al mondo, e perché uno appena aperto, come The Land, susciti un senso di disprezzo.

Se un bambino di 10 anni accendesse un fuoco in un parco giochi americano, qualcuno chiamerebbe la polizia e il bambino sarebbe mandato dallo psicologo. A The Land, i fuochi spontanei sono invece assai frequenti. Il parco è supervisionato da personale qualificato che tiene d’occhio i ragazzi ma senza intervenire molto. Claire Griffiths, la direttrice, descrive il suo lavoro come un “bighellonare con scopo”. Sebbene il personale quasi mai impedisca ai bambini di fare quello che stanno facendo, prima ancora che il parco venisse inaugurato aveva riempito interi raccoglitori con “valutazioni rischi-benefici” su quasi tutte le attività possibili (nei due anni dall’apertura nessuno si è fatto male, a parte qualche ginocchio sbucciato ogni tanto).

Ecco la lista dei benefici legati al fuoco: “sedere attorno a un falò può essere un’esperienza sociale, si sta insieme agli amici, si fanno nuove amicizie, si cantano canzoni e si balla, lo si osserva, può diventare un’esperienza di cooperazione dove ognuno ha il suo compito. Può essere qualcosa con cui sperimentare, correre dei rischi, scoprendone le proprietà, il calore, il potere, e ritrovando il nostro passato evolutivo. I rischi? “Bruciarsi col fuoco o con il braciere” e “bruciare altri bambini in modo accidentale con tizzoni o carboni infuocati.” In questo caso vincono i benefici perché un operatore è sempre nei paraggi e controlla che non accadano incidenti, ma lascia che i bambini imparino da soli le lezioni che il fuoco può impartire.

“Voglio mettere questa scatola di cartone nel fuoco”, dice uno dei ragazzi. “Ma sai che farà un sacco di fumo”, replica la Griffiths.

“Dove c’è fumo, c’è fuoco” risponde lui e getta la scatola fra le fiamme. Subito il fumo satura l’aria e ci brucia gli occhi. Gli altri ragazzi seduti attorno al falò tossiscono, abbassano la testa e gli lanciano improperi. Nei parchi giochi che frequento io queste si chiamerebbero “conseguenze naturali”, sebbene di rado abbiamo il coraggio di consentire anche solo situazioni assai più tranquille di questa. Invece, a The Land, l’abitudine dei genitori è quella di non intervenire, anzi, di non venire affatto. Le dozzine di ragazzini che hanno scorazzato per il parco il giorno che c’ero anch’io sono andati e venuti per conto proprio. In sette ore, a parte la Griffiths e gli altri operatori, ho visto solo due adulti: la nonna di Dylan, che lo ha accompagnato perché ha solo cinque anni, e Steve Hughes, che gestisce un negozio da pesca in zona ed è venuto a dare in prestito alcuni attrezzi.

La Griffiths ha iniziato nel 2006 a sensibilizzare le famiglie sulla proposta del parco. Spiegava i benefici del gioco libero all’aperto per la salute e lo sviluppo e diceva che per quanto caotico nell’aspetto il parco sarebbe stato un’area recintata e protetta. Soprattutto ha fatto appello alla nostalgia. Descrivendo alcune delle cose che i bambini avrebbero potuto fare, chiedeva ai genitori di ricordare la propria infanzia: “Ahh, non lo facevate mai?” chiedeva. E così li ha conquistati. Hughes si è trasferito nel quartiere dopo che The Land era stato aperto e quando è passato gli ho chiesto come avrebbe risposto alla domanda: “Quando ero bambino non c’erano tutte queste regole sulla sicurezza e la salute”, mi ha detto, “andavo sempre a nuotare nel Dee, che è uno dei fiumi più pericolosi della zona. Se i miei genitori l’avessero scoperto mi avrebbero messo in castigo per il resto dei miei giorni. Ma a quei tempi ne facevamo di cotte e di crude.”

 

Come molti genitori della mia età, ho ricordi d’infanzia talmente diversi dal modo in cui stanno crescendo i miei figli che a volte penso di essermeli inventati, o almeno di averli esagerati. Sono cresciuta nei Queens, a New York, in un isolato con edifici a sei piani di appartamenti quasi identici. Durante gli anni della scuola elementare io e i miei amici passavamo interi pomeriggi a giocare a guardie e ladri nei garage di due appartamenti comunicanti; avevamo scoperto che c’era una porta di separazione fra i due, che si apriva sollevando una leva. Una volta, avrò avuto circa 9 anni, io e il mio amico Kim avevamo “rinchiuso” un gruppetto di bambini più piccoli in una prigione immaginaria dietro un cancello basso. Poi ci era venuta fame e ci eravamo diretti alla pizzeria Alba, qualche isolato più avanti, dimenticandoli del tutto. Al nostro ritorno, un’ora dopo, erano ancora in piedi nello stesso posto. Non avevano saltato il cancello, pur potendolo fare con facilità; i genitori non erano venuti a cercarli, e del resto, nessuno di loro se lo sarebbe aspettato. Due di loro si erano agitati parecchio ma a quei tempi il codice di comportamento fra bambini era legge. Gli avevamo detto che erano in prigione, e ci erano rimasti finché non li avevamo liberati. L’opinione di un genitore sui termini della loro detenzione sarebbe stata irrilevante.

 

Resto sempre perplessa di fronte a una particolare statistica che ogni tanto rispunta in qualche articolo, a proposito dell’utilizzo del tempo: anche se le donne oggi lavorano molte più ore rispetto agli anni ’70, le madri – e i padri – di qualsiasi estrazione sociale, trascorrono molto più tempo con i figli rispetto al passato. La cosa mi sembrava impossibile fino a qualche tempo fa, finché poi ho iniziato a riflettere sulla mia stessa vita. Mia madre non lavorava moltissimo quando ero più giovane, eppure non trascorreva tanto tempo con me. Non organizzava gli incontri con gli amichetti, né mi accompagnava a nuoto o mi faceva conoscere la musica che più le piaceva. Durante la settimana, dopo la scuola, si aspettava solo che mi facessi viva per cena: nel fine settimana la vedevo a stento. Dal canto mio, il sabato è facile che trascorra ogni singola ora del giorno con uno se non tutti e tre i miei figli, portando uno a calcio, l’altro a teatro, il terzo da un amico, oppure ciondolando per casa insieme a loro. Quando mia figlia era sui 10 anni, mio marito si rese conto d’improvviso che forse in tutta la sua vita non era stata lasciata da sola senza la supervisione di un adulto per più di 10 minuti. Neppure 10 minuti in 10 anni.

È difficile credere quanto le norme di comportamento relative all’infanzia siano mutate in appena una generazione. Azioni che sarebbero state considerate paranoiche negli anni ’70 – accompagnare a piedi a scuola bambini di terza elementare, proibire di giocare a pallone per strada, scendere dallo scivolo col bambino in grembo – rappresentano ora la norma. Anzi, sono il segno da cui si riconosce un genitore bravo e responsabile. Uno studio molto accurato sulla “mobilità indipendente dei bambini”, condotto in aree urbane, periferiche e rurali del Regno Unito, mostra che nel 1971 l’80% dei bambini di terza elementare andavano a piedi a scuola da soli. Nel 1990 questo valore era sceso al 9%, e oggi è ancora diminuito. Se si chiede ai genitori perché sono più protettivi di quanto non fossero i loro padri, potrebbero rispondere che il mondo è più pericoloso oggi rispetto a quando erano bambini. Ma questo è falso, o almeno non è vero nel modo in cui crediamo noi. Ad esempio, i genitori ora dicono sempre ai figli di non parlare agli sconosciuti, anche se tutti i dati a disposizione suggeriscono che la probabilità di essere rapiti da un estraneo, peraltro bassissima, è la stessa di una generazione fa. Forse la vera domanda è, come mai queste paure hanno fatto tanta presa su di noi? E i nostri figli, cosa hanno perso e guadagnato dal nostro soccombre a esse?”

 

Tradotto da Michela Orazzini

Testo originale di Hanna Rosin, pubblicato ad aprile 2014 su www.theatlantic.com

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