Fra pochi giorni sarà il compleanno del mio secondogenito, Edoardo, 2 anni, e così ripercorro con la mente i momenti che hanno preceduto la sua nascita, e i suoi primi giorni di vita passati in ospedale…
Purtroppo, non posso dimenticare fatti a dir poco gravi accaduti proprio in occasione della mia degenza presso il reparto di ginecologia e ostetricia dell’ospedale di Legnano che si vuole “all’avanguardia” – purtroppo preceduti da altri episodi altrettanto incresciosi a cui ho assistito in occasione dei monitoraggi di routine delle ultime settimane di gravidanza.
Le paure, i dubbi, le trepidazioni della “imminente” neomamma, in sala parto sono di sicuro amplificate nel cuore di quelle madri che, arrivate da terre lontane e spesso con storie di grande sofferenza alle spalle, si trovano a dover mettere al mondo i propri figli in un paese “estraneo”, che parla una lingua sconosciuta, senza il sostegno della famiglia – e del tessuto sociale – d’origine.
Non sarà certo facile, né gradevole, né tantomeno rassicurante trovarsi ad affrontare una delle prove più meravigliosamente atroci della vita circondate da camici bianchi e volti “mascherati” che esaminano, auscultano, palpano e incitano, senza capire nulla né di quanto accade, né di quello che viene detto.
Ancor più sgradevole – per non dire umiliante – è accorgersi (spaventate da un parto che non è andato come dovuto, o sfinite e indebolite da un travaglio difficile o ancora in preda ai dolori di un cesareo) che il personale che dovrebbe prendersi cura di te ti urla in faccia, con gesti di insofferenza o di sufficienza, frasi incomprensibili. Peccato, o per fortuna, che il linguaggio dei gesti e della mimica facciale sono universali!
A me è capitato proprio di assistere a un episodio come questo: per compagna di stanza dopo la nascita di Edoardo avevo una – giovanissima – mamma dello SriLanka, al suo primo bimbo, nato con un cesareo dopo un travaglio lungo e difficile, e subito messo in incubatrice per problemi respiratori (e altre complicazioni) sopravvenuti a causa del parto difficoltoso. Oltre al dolore di non avere il suo piccolo accanto e l’impossibilità di comunicare coi medici, le è toccata l’umiliazione di infermiere che la trattavano con sufficienza.
Non accetto che in un ospedale di un paese che si proclama civile come l’Italia si debba assistere a tali esempi di meschinità, non accetto di vedere le lacrime di una mamma sola e sofferente presa in giro e umiliata perché “tanto non capisce”. Non accetto che aziende ospedaliere recensite sulle famose riviste “per le mamme” in virtù de “la sala parto più all’avanguardia”, “il reparto maternità più accogliente”, “le camerette più luminose e colorate” e “la vasca per il parto, la palla per il parto, la ‘liana’ per il parto e ‘tutto per il parto’ all’ultimo grido” non assicurino la presenza – che ci piaccia o no – imprescindibile di mediatori culturali (per l’arabo, il cinese e altre lingue orientali) a sostegno di un sempre crescente numero di partorienti extracomunitarie. Infine, non accetto che nei nostri reparti maternità operi personale senza i minimi requisiti di comprensione e pazienza dovuti a qualsiasi neomamma – a prescindere dalle sue origini.
Mi capita di tornare con la mente alla mia compagna di stanza, chiedendomi come sia adesso il suo bimbo, e soprattutto come se la sia cavata lei – giovane madre in un paese che le si è mostrato tanto ostile. Spero, in cuor mio, che l’esperienza raccontata sia stato solo un caso sporadico. Però son certa di una cosa: la prossima volta (o nella prossima vita), giuro, partorisco a casa!
Beatrice Cerrai