Cosa sanno i dentisti di oggi della carie? Quello che ci hanno raccontato, e cioè che, in seguito alla Teoria Batterica delle Malattie, formulata da R. Koch e incarnata dal suo campione Louis Pasteur, sul finire dell’Ottocento ci fu una corsa a dimostrare che ogni possibile ambito della patologia fosse ricollegabile al fatto microbiologico.
E così fu la volta anche dei dentisti, che in W.D. Miller trovarono il loro personale paladino antibatterico (W.D. Miller, “The micro-organisms of the human mouth”, The S.S. White Dental Mfg. Co., Philadelphia, 1890). Miller mostrò che la fermentazione dei carboidrati presenti nei residui di cibo da parte dei batteri forma acido lattico, che scompone i costituenti minerali dei prismi dello smalto dei denti, mentre un altro tipo di batteri attacca la sostanza fondamentale che fa da collante tra i prismi stessi. Scomponi qua, scomponi là, alla fine si forma un buco che aumenta progressivamente di dimensioni, che viene chiamato carie.
Sebbene l’evidenza clinica abbia da sempre dimostrato ai dentisti che le carie possono arrestarsi da sole, oggi nessun dentista saprebbe dire come, quando e perché questo possa accadere. E se non lo sanno i dentisti, praticamente non lo sa nessuno.
Eppure prima dell’ultima guerra queste informazioni erano di dominio pubblico tra i dentisti. Vediamo di che si tratta.
A partire dagli anni Venti la Teoria Batterica delle Malattie di Koch e Pasteur venne messa in discussione da parte di molti medici e ricercatori che studiavano gli effetti dell’alimentazione e delle vitamine sul sistema ormonale. Lo spunto era partito dall’osservazione della coincidenza clinica tra le malattie infettive, le carenze nutrizionali e le disfunzioni metaboliche concomitanti. Si faceva strada l’idea che i batteri divenissero pericolosi solo nel momento in cui il modo di vivere dell’individuo lo indeboliva al punto da renderlo suscettibile agli attacchi di questi. Si era inoltre diffusa la notizia dell’immunità delle popolazioni tradizionali alle malattie infettive e degenerative tipiche delle popolazioni inurbate, tecnologizzate e alimentate con cibi non originari.
Così si apriva l’opportunità di trovare una risposta ai rompicapo che da sempre assillano i dentisti:
1) i denti non si cariano ogni volta che rimangono residui di cibo,
2) la predisposizione alla carie aumenta con la gravidanza e le malattie sistemiche
3) i denti devitalizzati sono più sensibili di quelli vivi al formarsi della carie
5) lo smalto “macchiato”, pur essendo meno calcificato di quello normale, non è più suscettibile alla carie
6) pur essendo tutti i denti ricoperti di batteri, se ne cariano solo alcuni.
Tutto questo non poteva trovare spiegazione nella semplicistica interpretazione batterica. Si accettava senza dubbio la compresenza dei batteri acidofili e dei carboidrati come fattore precipitante il manifestarsi della carie, ma l’evidenza clinica dimostrava la necessaria esistenza di un fattore predisponente: la qualità del sangue e della saliva. Essendo questi i fluidi che circondano e permeano il dente, dovevano necessariamente avere un rapporto con la capacità dell’individuo di preservarsi naturalmente dagli effetti della compresenza dei batteri.
Che c’entra la qualità del sangue? In che senso esso “permea” il dente?
Il dott. Andrea Di Chiara lo spiega qui
Dott. Andrea Di Chiara, Presidente dell’Associazione Italiana per la Prevenzione della Respirazione Orale (AIPRO) e autore di Il giusto respiro.