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Come nasce “Un seme”: intervista all’autrice

Alessandra Lodrini, autrice e illustratrice di Un seme, ci racconta in questa intervista come è nato il suo primo libro, le difficoltà che ha incontrato durante la preparazione e la gioia di vederlo crescere pian piano.


Il tuo primo albo illustrato tratta un tema difficile e sicuramente inedito.
Come hai deciso di presentarlo agli editori e quali risposte hai ricevuto?

Ho iniziato a lavorare a questo progetto nell’autunno 2016 e l’ho terminato a giugno 2019. Se penso seriamente a come l’ho proposto agli editori mi viene da sorridere. Potrei dare risposte differenti in base ai diversi momenti in cui l’ho presentato.

In principio la voglia di buttarsi, l’inesperienza, l’ingenuità e la mancanza di criticità verso me stessa hanno fatto sì che inviassi il testo e tre definitivi a svariate case editrici di cui stimavo il catalogo, senza neppure avere in testa uno storyboard completo.
Non mi preoccupavo di nulla, il progetto nasceva di pancia e, con la stessa leggerezza con cui le immagini emergevano, lo inviavo.
Dopo qualche mese e alcuni rifiuti, ho iniziato a guardarlo con più criticità e ad accorgermi dei primi limiti e difetti.

Ho anche capito, col tempo, che il tema era ostico per non dire tabù.
Non credevo che questa tematica fosse un ostacolo così grande, ma alcune mail di risposta erano molto chiare su questo.
Tra le tante qualcuno mi incoraggiava, anche se non era disposto ad investire su di me.

È stato un percorso in salita quello precedente all’approdo alla vostra casa editrice: ho visto sfumare il progetto a un passo dalla pubblicazione, è stata dura, ma è servito anche quello.

Come dice un vecchio proverbio… Ogni cosa ha il suo tempo.

Sappiamo che sei stata costante e testarda nel proporci Un seme.
Per almeno due anni in Fiera a Bologna ti sei piazzata davanti allo stand chiedendoci di dare un’occhiata al tuo progetto coraggioso.
Per noi questo ha significato molto e, infatti, il libro racchiude l’essenza della tua tenacia.
Cosa ti ha spinto a non arrenderti?

Non è stato semplice. Arrendersi è sicuramente una parola che non fa parte del mio carattere, ma non nego di avere avuto dei momenti di sconforto, soprattutto dopo che è sfumata la pubblicazione nel 2018.

La malinconia al pensiero di non riuscire più a trovare qualcuno che sapesse valorizzare il progetto a volte prendeva il sopravvento.
Inoltre più il tempo passava, più notavo delle criticità e non riuscivo più a guardare alcune tavole, non le sentivo più mie. Sarebbe bastato rimettersi sotto, rifarle daccapo, ma non avevo più l’energia né lo sprono giusto.

Quando poi vi ho incontrato in Fiera e ho sentito quell’empatia e quell’accoglienza che da tanto attendevo, rimettermi a lavorare sui limiti dell’albo per trasformarli è stata la cosa più appagante.

Il libro inizia con una dedica, ti ha aiutata ad alleviare una grande ferita?

Quando ho iniziato a lavorarci la mia ferita era un dolore già elaborato, superato, ma fortemente presente nel mio immaginario, in attesa di emergere.
Il fatto di avere lavorato a un progetto di matrice fortemente personale, credo dipenda dal mio modo di approcciarmi all’illustrazione che è molto intuitivo ed emozionale.

I sentimenti, le emozioni, i dolori, le esperienze che vivo, inevitabilmente diventano esse stesse strumento di ricerca, veicolando anche i significati, le parole o le immagini.

Solo quest’anno, frequentando un corso sull’albo illustrato, ho messo chiaramente a fuoco quanto influisca il mio lato emotivo sul mio modo di disegnare e quanto questa mia parte interiore giochi un ruolo primario.

La tua è una tecnica di illustrazione particolare, ci racconti come “monti” le tue tavole?
Come sei arrivata a definire il tuo stile personale?

Lavoro mescolando collage e matite colorate.
È la tecnica che prediligo da tempo ormai e con la quale sento di avere più padronanza.
Mi ci sono avvicinata nel 2012, quando ho mosso i primi timidi passi in questo mondo. Non conoscevo autori e illustratori, e casualmente (o forse no) i primi albi che ho amato sono stati quelli di Sophie Fatus, Arianna Papini e Pia Valentinis.

C’è sempre una scintilla che fa muovere qualcosa dentro di noi e ci fa prendere una direzione piuttosto che un’altra.

Nel mio caso, queste tre illustratrici, diversissime tra loro, hanno instillato in me il desiderio di prendere in mano le matite e provare a ritagliare, incollare e vedere cosa ne sarebbe uscito.
Il collage, le matite, mi hanno appassionata totalmente e ho preferito rimanere dentro la tecnica che mi permetteva di esprimere al meglio quello che avevo da dire.

Lo stile per me nasce in modo spontaneo e naturale per chiunque utilizzi e approfondisca una tecnica, è sempre personale. Credo che la difficoltà più grande sia quella di riuscire a raggiungere una certa continuità nel proprio linguaggio in modo da essere riconoscibili rimanendo se stessi.
Bisogna ascoltarsi e capire le influenze di altri artisti senza esserne risucchiati.

È stato difficile lavorare a distanza?

Essendo il mio primo albo posso dire che lo scambio nato tra me e la casa editrice, le riflessioni attorno alle criticità da risolvere, sono sempre state interessanti e costruttive.
Ho notato, e mi ha sorpreso, la delicatezza e il rispetto verso il mio lavoro. Mi sono stati suggeriti dei percorsi che in alcuni casi sono stati da me condivisi pienamente e in altri discussi, ma sempre lasciandomi spazio e serenità nel muovermi e nel proporre alternative che per me erano più congrue.
La mia ansia derivava dalle scadenze e, a maggior ragione, in questo caso posso dire che il vostro modo di relazionarsi sereno e rispettoso mi ha dato la tranquillità per terminare il progetto migliorandolo.

Un messaggio per chi sfoglierà questo libro?

Mi auguro che questo libro possa essere innanzitutto un punto di partenza per poter nominare quello che solitamente viene taciuto.

Che possa liberare qualcuno di un peso, che possa parlare non solo a chi ha perso un bambino mentre lo attendeva, ma a tutti quelli che hanno vissuto un grande dolore, perché è proprio la nostra vulnerabilità a renderci simili ed empatici.

Mi auguro soprattutto che possa dare a qualcuno la voglia di andare avanti e ritrovare la gioia di piantare un seme, qualunque sia il frutto che porterà.

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