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Mamma a tempo pieno

Scegliere di fare la mamma a tempo pieno è ancora oggi un argomento tabù: un genitore che scelga di dedicarsi completamente ai figli nei loro primi anni di vita deve affrontare varie difficoltà, dai pregiudizi degli altri, al possibile senso di colpa, alla pressione sociale.

Due visioni agli antipodi?

Nel decidere se fare la mamma a tempo pieno o tentare invece la difficile impresa di essere la mamma lavoratrice, ci si trova spesso di fronte a un bivio. Le due alternative, almeno nel pensiero comune, appaiono rigidamente contrapposte: si pensa infatti che chi si vota completamente alla cura della prole stia implicitamente sacrificando i propri sogni e le proprie ambizioni, nonché la propria autonomia e realizzazione, mentre chi torna subito al lavoro si stia “riappropriando” della propria vita e del proprio tempo per sé.

Questa visione non è soltanto troppo semplicistica, ma è anche una importante spia del modo in cui la nostra società concepisce l’infanzia e la genitorialità, considerando i figli come qualcosa di cui occuparsi quando avanza del tempo, in assenza di altre attività per necessità o per scelta più importanti. Che lo si ammetta o meno, occuparsi dei bambini non è considerato un investimento tanto quanto mantenere il proprio lavoro o far carriera.

La narrazione contempla poi che, nel 99% dei casi, sia la madre a sacrificarsi o a decidere di mandare avanti, con fatica ed equilibrismo. Per la mamma lavoratrice gli impegni legati all’ambito della famiglia e del lavoro si alternano in un tour de force continuo, particolarmente intenso e frustrante soprattutto nei primi anni di vita o quando la famiglia “si allarga” ulteriormente.

Miti e pregiudizi sull’accudimento dei figli

Da tutto ciò deriva il concetto, per lo più mitico, di “tempo di qualità”, secondo cui non importerebbe tanto la quantità di tempo passata coi figli, quanto appunto la qualità di questo tempo: meno può essere meglio, si pensa, soprattutto se il genitore è già sotto stress (e fin troppo spesso si ritiene che siano proprio i figli la causa principale di questo stress).
Infatti si dà per scontato che passare del tempo con loro sia una fatica ingrata, che succhia energie e tempo e rende impossibile coltivare le proprie passioni. I bambini finiscono per essere visti come una fatica da “scaricare”, per forza di cose, su altri soggetti esterni o interni alla famiglia.

Quando i futuri o neogenitori si trovano a soppesare le varie opzioni che si trovano di fronte per quanto riguarda l’accudimento del nascituro o del bebè, non sono portati a considerare la nuova vita come un’occasione di ripensamento e valutazione delle loro priorità e necessità.
I cambiamenti all’interno della quotidianità sono visti come stravolgimenti temporanei, da far rientrare il prima possibile, come se avere figli fosse una malattia, o uno sbandamento momentaneo da cui riprendersi.

Lo stigma contro la mamma a tempo pieno

Se uno dei due (quasi esclusivamente la madre), decide di stare a casa con i figli, diventando quindi a tutti gli effetti una mamma a tempo pieno, lo fa solitamente come se fosse una sconfitta, sentendo addosso un certo stigma, quello della donna tutta casa e pannolini, senz’altra realizzazione e spesso e volentieri attaccata in maniera morbosa ai piccoli (basti pensare allo stereotipo della mammapancina”).
Allo stesso modo, il pensiero, indotto, che il periodo in cui dedicarsi esclusivamente al nuovo arrivato sia limitato a 3, 6, 9 o 12 mesi e “non di più” scoraggia dal trovare soluzioni diverse, che andrebbero controcorrente, per non passare come il genitore asfissiante e problematico.

Mamma a tempo pieno o lavoratrice? Poter scegliere è un privilegio

Ora, per sgombrare subito il campo da equivoci, nessuno dice che una donna (o un uomo!) sia un genitore migliore solo perché passa tutto il suo tempo o quasi con i figli, e che ci si debba sentire “in dovere” di lasciare il proprio impiego o rimodularlo fortemente in seguito al diventare genitori.

Ragionamenti come questi non possono che causare un senso di colpa nella mamma lavoratrice, quando spesso quella di tornare in ufficio è una necessità. E sarebbe ingiusto puntare il dito contro chi scelga di riprendere a lavorare anche dopo un periodo molto breve passato a fare la mamma a tempo pieno: il punto è che l’opzione opposta, quella di avere la possibilità di “prendersi una pausa” davvero significativa, in termini di tempo, per dedicarsi all’accudimento e all’educazione dei figli, non viene contemplata dalle istituzioni e non è di fatto accessibile nemmeno per chi ne nutra il desiderio.

Vincere la pressione sociale

Come afferma anche la psicoterapeuta Isabelle Fox nel suo libro interamente dedicato al tema, Sempre con lui, i sussidi alla famiglia per occuparsi dei piccoli vanno tutti in direzione della creazione di strutture educative o simili extrafamiliari (nidi, scuole dell’infanzia, babyparking, babysitting). I primi due dell’elenco sono anzi visti come irrinunciabili occasioni di apprendimento e socialità per i piccoli, secondo ricerche che riportano dati ricavati e interpretati in maniera dubbia, così che, paradossalmente, anche chi potrebbe o vorrebbe farne a meno viene spinto a usufruirne, “per il bene dei figli e per il loro futuro”.

Ci troviamo insomma di nuovo di fronte all’ennesima costruzione mentale strumentalizzata quanto fa comodo: sicuramente il nostro sistema economico e sociale spinge per le soluzioni che separano genitori e figli, così che i primi possano tornare a essere “produttivi” il prima possibile, e i secondi abbiano sempre più bisogno dei mille ausili materiali ideati dalla “cultura del distacco”.

Il criterio di scelta: cos’è meglio per i bambini?

Al di là di quello che i genitori possono e vogliono fare (o meglio pensano di poter e voler fare, tanto grandi e inconsci sono i condizionamenti esterni), cos’è però meglio per i bambini?
La vera domanda per sciogliere la questione, l’interrogativo scomodo e posto assai di rado, dovrebbe in realtà essere: “Qual è il periodo in cui, se si potesse scegliere, sarebbe opportuno restare con i figli senza la preoccupazione e l’impegno lavorativo?”.
A questo proposito la Fox, e i numerosi studi ed esperti citati, non hanno dubbi: fintanto che i piccoli non siano davvero in grado di comprendere dove “sparisca” il genitore per alcune o molte ore al giorno, e dunque di padroneggiare la verbalizzazione, ovvero non prima dei 2 o 3 anni di età.

Anche lo studio della fisiologia mette in luce tempistiche simili, pensando all’età media cui avviene lo svezzamento spontaneo dal seno (circa 4 anni, ben raramente prima dei 2 o 2 e mezzo) e valutando altri parametri quali il consolidamento del sonno notturno o l’ansia da separazione, che decresce anch’essa attorno ai 2 anni, quando i piccoli sono pronti a tollerare meglio il distacco dalla figura di riferimento.
Un intervallo di tempo che pare un’era geologica, in confronto ai congedi di cui le madri e i padri possono attualmente concretamente fruire, in Italia e non solo, ma che, a pensarci bene, è davvero un lasso di tempo minimo se messo a confronto con una vita intera, e persino a una carriera professionale, soprattutto se si considera l’allungamento della vita media e di conseguenza l’allontanamento dell’agognata pensione.

Figli e lavoro: un’accoppiata impossibile?

E infatti qui sta il punto: crescere in maniera presente, continua e consapevole i figli non dovrebbe essere alternativo alla possibilità di realizzarsi in campo lavorativo, né per l’uomo né per la donna. Come suggerisce Antonella Sagone, i bisogni dei genitori e quelli dei figli dovrebbero “naturalmente” coincidere, o almeno non essere in costante antitesi; se ciò accade, il problema sta nella società in cui viviamo, non negli individui.

Alle istituzioni, che dicono di tutelare soprattutto le categorie più fragili e il futuro del paese, il compito inderogabile di assicurare tutto ciò. In che modo?
Attraverso una corretta informazione, scevra da interessi di sorta e mistificazioni, e il conseguente supporto, economico e pratico. Così si cambierebbe davvero una mentalità che mortifica tutti i membri della famiglia, impedendo ai genitori di esercitare pienamente, se lo desiderano, il proprio diritto di essere mamme (o papà) a tempo pieno e privando i bambini di una guida davvero insostituibile.

La mamma a tempo pieno e il finto femminismo

C’è un altro punto della faccenda che mi preme sottolineare, dal momento che abbraccia poi molti altri aspetti della maternità, causando simili danni: le responsabilità di un certo “femminismo” che tende a confondere diritti e doveri, indebolendo di fatto le donne nelle loro competenze, anziché difenderle o rafforzarle.
Ancora una volta, si tratta di una tendenza che danneggia gli individui proprio nel momento in cui dice di tutelarli: con la scusa di voler “liberare” la figura femminile, si gioca in realtà a favore del profitto economico e di logiche che con l’umanità e il benessere della persona hanno davvero poco a che fare.

Cosa significa davvero la parità di genere

Parità di genere significa estendere i diritti, nella consapevolezza che questi comportino anche dei doveri, ma nel rispetto della specificità e delle aspirazioni di ognuno.
Ritenere che una donna, una madre, debba essere aiutata esclusivamente con un nido gratuito anziché, se lo desidera, con un congedo retribuito dal lavoro, il “congelamento” del suo posto o altre forme di conciliazione fra famiglia e professione che non comportino lo stare lontana per la maggior parte della giornata da suo figlio, è alquanto ottuso, ipocrita e discriminatorio.

Sarebbe come allungare un biberon di latte artificiale a una donna che manifesti disagi o difficoltà nell’allattamento, oppure suggerire un cesareo programmato o l’analgesia epidurale a chi confessi i propri timori al pensiero del parto. Non vi è nulla di intrinsecamente sbagliato in questi interventi, quando siano davvero richiesti dalla diretta interessata, che ha d’altra parte tutto il diritto di essere preventivamente informata dei rischi e delle implicazioni del caso, e non presentati come “alternative obbligate”.

Essere una mamma a tempo pieno: una forma di empowerment

Questo discorso vale anche per l’educazione e l’accudimento dei figli, troppo frettolosamente e superficialmente demandate a terzi, senza una reale riflessione su ciò che questo comporti e possa significare.
Il contesto è invece caratterizzato da un coacervo di disinformazione, pregiudizi, luoghi comuni e pressioni interessate per cui la maggior parte delle persone non percepisce nemmeno “dove stia il problema”, continuando a vivere in un’ignoranza e inconsapevolezza tutt’altro che “beata” e dannosa per sé e i propri figli.

Informazioni corrette e senza “doppi fini” e supporto: un binomio arduo a realizzarsi ma indispensabile, per l’empowerment dei genitori e dei loro bambini finalmente visti come compagni di squadra, e non come avversari!


di Federica Villa
Insegnante di scuola superiore di primo grado, mamma alla pari in allattamento e curatrice del blog Dontwasteasunnyday, in cui ragiona di maternità e genitorialità, educazione e vita outdoor.


Bibliografia

A. Bortolotti, E se poi prende il vizio?, Il leone verde Edizioni, 2010.
A. Sagone, La rivoluzione della tenerezza, Il leone verde Edizioni, 2020.
I. Fox, Sempre con lui, Il leone verde Edizioni, 2009.

Un commento

    • Veronica

    • 9 mesi fa

    Non avevo mai letto un articolo che trattava così consapevolmente questo argomento, complimenti e grazie! Mi sono rivista in ogni singola parola. Si vede quando i temi sono affrontati da chi conosce davvero sulla propria pelle i problemi dei genitori e dei figli dei nostri tempi, problemi che anche quando nemmeno ci sarebbero,la nostra società fa di tutto affinché ci siano! Peccato perché realizzare una famiglia è una cosa meravigliosa,ma comporta delle difficoltà e degli inutili sensi di colpa e inadeguatezza che spesso offuscano la bellezza di ciò che si è realizzato e troppo spesso scoraggiano chi vorrebbe farlo…

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