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Educare i bambini, camminare insieme

educare bambini insegnante alunniUna delle convinzioni più radicate in chi educa è che la relazione educativa debba essere inevitabilmente asimmetrica: l’educatore in alto (il padre, il professore), l’educando in basso (il figlio, lo studente).

 

Certo, i segni esteriori di questa asimmetria – le tante cattedre con la pedana che ancora esistono nelle nostre scuole, ad esempio – suscitano qualche disagio, ma la struttura mentale, per così dire, è ancora ben salda.

 

Da chi è nella posizione di figlio o di studente ci si aspetta un atteggiamento di sottomissione più o meno palese. A scuola il professore dà del tu allo studente, il quale darà del lei o addirittura (soprattutto al sud) del voi al docente.

 

Uno degli affronti che i docenti tollerano meno è quando lo studente “risponde”, vale a dire quando tenta di porre il confronto con il docente su un piano di parità. I docenti ne parlano come di un azzardo inaudito, che bisogna rintuzzare prontamente; e quando si tratta di attribuire il voto di condotta, a fine anno, non si mancherà di tener conto di questi azzardi. L’alunno da nove o dieci in condotta è per definizione l’alunno che “non risponde“.
Una delle lamentele più diffuse nella pubblicistica pedagogica di largo consumo riguarda l’assottigliarsi reale o presunto di questa asimmetria. I genitori, si dice, oggi non vogliono più fare i genitori. Accorciano le distanze con i loro figli: vogliono essere loro amici. Non solo non sono più autoritari, non sanno essere nemmeno autorevoli.

 

C’è qualcosa di vero in queste lamentele. E’ vero, mi sembra, che oggi non vi sia in giro molta voglia di impegnarsi in una relazione educativa, vale a dire in una relazione profonda, impegnativa, anche destabilizzante. E’ una conseguenza della deriva generale delle nostre relazioni umane, legata al tipo di società che abbiamo creato – o che abbiamo lasciato che altri creassero.

 

Da un lato c’è l’individualismo, il mito dell’io, che ostacola (ma non sempre) la dedizione all’altro senza la quale non c’è educazione; dall’altro c’è il consumismo che brucia il tempo della relazione, erode la calma necessaria per un incontro significativo, mercifica tutto quello che può mercificare, rendendo sempre più esigui gli spazi – umani, sociali, esistenziali – per essere oltre sé stessi.
Una relazione educativa è una relazione umana autentica. Essa si riconosce in primo luogo per l’impegno: ci coinvolge, ci prende, ci costringe a metterci a nudo, ad abbandonarci. In una relazione educativa non solo si comunica, ma ci si comunica, ossia si mette in comune il proprio essere.

 

In secondo luogo, in una relazione educativa l’altro è fine e non mezzo. Se l’io fa ombra al tu, se chiediamo all’altro di farci da specchio e di rimandarci un’immagine gratificante di noi stessi, che sostenga ed alimenti il nostro narcisismo, non siamo in una relazione educativa.

 

Infine, una relazione educativa è dinamica, è uno star-dentro, ma anche un camminare-verso. L’educazione è sempre una situazione di ricerca – del bene, del vero, del bello, del giusto. Cose che non sono mai un possesso, ma indicano una direzione verso la quale muoversi.
Nulla di tutto ciò è possibile in una relazione asimmetrica. Non è possibile il coinvolgimento personale. In una relazione asimmetrica chi occupa la posizione superiore è distante, nascosto dietro la maschera del suo ruolo, e di sé comunica solo ciò che il ruolo prevede.

 

Non c’è comunicazione, ossia lo scambio reciproco di due persone che mettono in comune il loro essere e cercano una forma di comunione, ma mera trasmissione, secondo la distinzione di Danilo Dolci. Per comunicare bisogna essere sullo stesso piano, altrimenti c’è il semplice passaggio di un messaggio dall’emittente al destinatario, che non ha facoltà di replica (o ha una facoltà di replica molto parziale).

 

In una relazione educativa (meglio: pseudo-educativa) asimmetrica, chi educa rappresenta il modello verso il quale l’educando deve muoversi, l’ideale umano che deve adeguare e realizzare. L’io dell’educatore occupa tutto lo spazio della relazione educativa, schiacciando il tu dello studente.

 

Peraltro, il proporsi come modelli ha come inevitabile risvolto l’inautenticità, poiché chiunque ha debolezze più o meno gravi, fragilità, contraddizioni, incoerenze. Per proporsi come modelli occorre nasconderli agli occhi dell’educando; una cosa non difficile, se si resta dietro la maschera del ruolo.
In una relazione asimmetrica il dinamismo è parziale. C’è un movimento che va dall’educando all’educatore. L’educatore è il modello, l’educando si muove verso di lui. Così, almeno, crede l’educatore. Provate a chiedere a degli studenti se considerano i loro docenti dei modelli. Molti di loro risponderanno semplicemente ridendo.

 

In famiglia va diversamente – la famiglia è il valore fondamentale dei ragazzi di oggi: le ribellioni degli anni Settanta sembrano essere definitivamente alle spalle -, ma non sono comunque molti i genitori percepiti come modelli dai figli.

 

C’è vera educazione quando il dinamismo è totale, ossia riguarda tanto l’educatore quanto l’educando. Il dinamismo, in realtà, fa saltare anche questa distinzione terminologica. Poiché l’educazione è un processo che non ha mai fine, l’educatore non esiste: ognuno è sempre un educando. Il cosiddetto educatore si sta educando, e molto può imparare dal cosiddetto educando.

 

Nella relazione educativa abbiamo dunque due soggetti in formazione che si muovono insieme. Può essere che uno sia più avanzato, che cammini davanti all’altro, ma il cammino resta comune. Nessuno sa esattamente dove porterà il cammino.

 

Quello che si sa è cosa spinge a mettersi in cammino: la ricerca della verità, della giustizia, del bene. Nella società delle cose, i valori sono non-cose per eccellenza; non sono mai dati, disponibili, tangibili. Sono stelle distanti, a volte occultate dalle nuvole, spesso così fioche che sembra che stiano per spegnersi.
Gli pseudo-educatori, quelli con la maschera, fanno un gran parlare di valori. Interpretano il loro ruolo come quello di chi consegna e trasmette i valori più sacri. Ma i valori di cui parlano spesso non sono affatto valori. Un valore si riconosce anch’esso per il dinamismo: esso è al di là dell’esistente, lo giudica, lo inquieta, lo costringe al cambiamento.

 

I valori di cui parlano gli pseudo-educatori sono invece i valori dell’esistente, l’accettazione e glorificazione della società così com’è: ossia ingiusta, falsa, violenta, inautentica. Gli pseudo-educatori sono rappresentanti dell’ordine costituito, sicari dello status quo, nemici del sogno e dell’utopia. Quella che chiamano educazione è la riproduzione dell’esistente, la replica delle vecchie generazioni nelle nuove.
Il compito dell’educazione sembra essere quello di fare in modo che la società cambi pur restando la stessa. Cambino pure le tecnologie, le abitudini, gli stili di vita, purché restino immutati i rapporti di potere. Le istituzioni scolastiche educano all’individualismo, alla ricerca personale del profitto e del successo. Ad inserirsi nel modo migliore nel mondo così com’è, senza avere la presunzione di cambiarlo.
Per cambiarlo bisognerebbe uscire dall’individualismo. Legarsi all’altro, comunicare con lui, condividere il proprio disagio – che ordinariamente ognuno soffre per sé: perché è convinzione diffusa che, se si è infelici nella società del benessere, è per mancanza propria, non del sistema – e cercare insieme una via d’uscita.

 

Per questo la vera educazione, intesa come un muoversi insieme alla ricerca dei valori, è sempre anche politica.

 

 

Antonio Vigilante

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