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Vita all'aperto: i bambini tra libertà e paura

Si torna alla vita all’aperto, a giocare nei prati, a stare vicini, ma a quale prezzo?
Per Valeria Vincenti, medico esperta di pedagogia curativa dell’Associazione Semi di futuro, è una ferita imposta dalla legge: chi ha immaginato certi scenari, di fredda adesione alle regole, di paura del contagio, di distacco e distanziamenti, infatti non conosce nulla delle esigenze e del vissuto dei bambini.


Una nuova vita all’aperto

I bambini sono sempre martiri dell’ansia sul loro supposto benessere; le ingiustizie più grandi originano da questo timore.
Janus Korczak

Dopo mesi di distanziamento e isolamento tra le pareti domestiche, finalmente riaprono centri sportivi e campi estivi per accogliere i nostri bambini e tornare alla vita sociale all’aperto. Tutto è stato approntato per adempiere agli obblighi di legge e ottemperare al distanziamento sociale che ci proteggerà dal temuto virus.
Peccato che, di fatto, sia impossibile far seguire tali norme ai bambini e ai ragazzi.
Eccoli che, dopo una prima titubanza, iniziano a rincorrersi, felici di essersi ritrovati. Nell’euforia generale si baciano si stringono, ridono, vicini come mai, e si respirano di nuovo uno nell’altro.

Nel chiuso del palazzo i nostri ministri si arrovellano in normative per il mese di settembre che sembrano più adatte a un campo di prigionia che a quegli edifici che un tempo erano chiamati scuole.
Da maestre della scuola pubblica, disperate, raccolgo informazioni che lasciano increduli.
L’ingresso dei genitori negli edifici sarà tassativamente vietato, anche per il primo giorno di scuola, anche nella scuola dell’infanzia. Vuol dire che i nostri bimbi di scuola elementare non potranno essere accompagnati dal papà e dalla mamma in quel rito di passaggio dalla famiglia alla vita sociale che l’ingresso in prima classe rappresenta.
I bimbi della scuola materna, poi, saranno lasciati sul portone a una persona estranea, a un ambiente estraneo e completamente sconosciuto. In aggiunta, non sarà loro concesso di portare oggetti transizionali, pericolosi portatori di possibili contagi.
Chi ha immaginato questi scenari non conosce nulla delle esigenze e del vissuto dei piccoli, non è genitore, nemmeno insegnante, meno che mai esperto tecnico o scientifico.

Accanto al tutore, che conosce i paragrafi delle leggi scritte, esigo un posto per l’educatore, che conosce i segreti delle leggi non scritte.
Janus Korczak

L’ambientazione necessaria

Le maestre di nido e materna sanno bene che i bambini piccoli necessitano di una “ambientazione”, di un vivere nel nuovo ambiente che sia graduale e progressivo, di un lento affidarsi alle figure di riferimento che, da parte loro, cercheranno di accogliere il piccolo con il più delicato dei contatti, con empatia, in un avvicinamento che, giorno dopo giorno, crei la possibilità per il bambino di ritrovare abitudini, cose, persone.
Il bimbo piccolo non si percepisce dentro di sé; prima dei 2 anni e mezzo o 3 non ha una coscienza unitaria di se stesso autoriferita e se ancora dice “mio” o “me”, non sa concettualmente di essere un io distinto da tutto ciò che vive intorno a sé.
A questa età, è “ambiente” anche il sentire dei genitori, della mamma in particolare, e comunque di chi se ne prende cura.
Se il cuore della mamma palpita di emozione, si emoziona anche il bambino; se c’è una preoccupazione in casa, i bambini spesso non riescono a dormire bene, come a molti è successo durante la quarantena, sebbene ci si immagina che i bimbi così piccoli non capiscano.

È vero, non capiscono con il capo, con la coscienza, ma sentono molto più di noi adulti, tutto vibra nei loro sentimenti e sensazioni, e il percepito è accolto come un tutto fatto di cose ,di parole, di espressioni gestuali e non verbali, di risonanze interiori.
Proprio i sentimenti sono di primaria importanza per la conferma e la ripetizione delle azioni che il bambino apprende ogni giorno e che lo fanno crescere.
Il bambino apprende ripetendo gesti, parole, intenzioni afferrati dal fuori di sé, dall’ambiente in senso lato e, se percepiti come buoni, delicati e affidabili, li interiorizza e li ripropone innumerevoli volte fino a farli suoi. Ma se l’esperienza con il fuori è interiormente dolorosa, faticosa, non gradevole, si stabilizza nella memoria profonda del bambino un sentimento gravoso, una ferita, capace di generare il rifiuto della relazione con le cose e con il mondo.
Quante nostre ferite di adulti hanno origine in quell’età della vita a cui la memoria cosciente non ha accesso!

La memoria del bambino vive in processi differenti a seconda dell’età

Da 0 a 3 anni e oltre è legata allo spazio fisico a tal punto che gli stessi compagni di scuola, se incontrati per strada, non si riconoscono e quasi non si salutano.
Di nuovo, l’importanza dell’ambiente, dello spazio che in questo caso caratterizza il processo del ricordare; ritrovare gli stessi oggetti e le stesse persone fa sorgere la memoria di ciò che in quel luogo avviene.
A cosa farà appello un bambino piccolo il cui ambientamento è avvenuto in maniera non graduale, ma improvviso, vissuto come abbandono da parte dei suoi genitori e che dovrà ogni giorno rivivere tale esperienza quando sarà portato a scuola?

Il bambino è un essere ragionevole, conosce bene le esigenze, le difficoltà e gli ostacoli della sua vita. Non ordini dispotici, non rigorismo e diffidente controllo, ma un’intesa piena di tatto, fiducia nelle sue esperienze, collaborazione e convivenza.
Janus Korczak

Senza un io cosciente di sé il bambino non può fare appello al ricordo personale.
La coscienza del bambino si desta progressivamente dai 3 anni, ma ancora per tutto il processo di crescita e di evoluzione del bambino che comprende gli anni della scuola elementare, la memoria si caratterizza per essere legata al tempo, al ritmo, alla ripetizione, alla possibilità di ricongiungere ieri-oggi-domani solo perché ha potuto percepirsi collegato al presente, con il corpo, con i sentimenti con il proprio io.
È il ritmo incessante del cuore e del respiro che viviamo ogni giorno in noi e che non si stanca mai di battere; ci dà l’immagine del vissuto del bambino ben collegato a se stesso, che gioca e impara e incontra il mondo, pieno di curiosità e gioia di vivere nella bellezza che, in tutte le forme, questo gli porta incontro.

Una scuola senza anima?

Al posto di tutto ciò, i legislatori stanno pensando di chiedere agli insegnanti di trasformare la scuola in un luogo di incontri senza anima, di oppressione e di fredda adesione alle regole, ove imparare ad aver paura del contagio e della malattia e a interiorizzare come giusta la regola del distacco e dei distanziamenti.
E gli insegnanti, loro malgrado, si trovano costretti a escogitare sotterfugi per proteggere i bambini da tali choc e rassicurare le famiglie, comprensibilmente spaventate e preoccupate dei danni a lungo termine che i bambini possano subire.
Dal pericolo reale ma assolutamente limitato e passeggero del virus nella popolazione infantile, stiamo passando alla sistematica costruzione di un danno permanente, di una ferita nascosta, in modo oggi non quantificabile, nel subconscio di quegli adulti del domani che sono oggi i nostri bambini.

I bambini sono le persone del futuro. E dunque devono ancora esistere, è sempre come se non esistessero ancora. Eppure: noi siamo qui ora, viviamo, sentiamo, soffriamo… La scuola dovrebbe essere una fucina dove si forgiano le parole più sante. […] La scuola dovrebbe invocare a gran voce i diritti dell’uomo, biasimare nel modo più fermo e radicale tutto ciò che vi è di torbido nella vita.
Janus Korczak


di Valeria Vincenti
Medico esperta di pedagogia curativa.

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