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Coltivare la relazione attraverso il gioco

Quanti significati può avere il gioco dei bambini?
Marialuisa Damini, esperta in processi educativi e formativi, spiega perché il gioco non è mai solo un gioco ma può diventare un attraverso cui coltivare la relazione, incentivare lo sviluppo e favorire il problem solving, se l’adulto che vi partecipa si pone in maniera corretta nei confronti del bambino.
Dopo aver letto questo articolo saprete come rispondere la prossima volta che vostro figlio vi chiederà: «Mamma, giochiamo?».

Giocare non è (solo) un gioco!

Il gioco è il primo modo con cui un bambino conosce il mondo, comprende come funzionano le cose, impara a esprimere se stesso e a sviluppare nuove abilità fisiche e mentali. Generalmente i bambini amano molto giocare con i genitori e richiedono la loro presenza. Ma in che modo giocare con un bambino? Quali accorgimenti prendere per fare del momento del gioco un momento di unione e di costruzione di una relazione davvero significativa?
Il primo elemento chiave è il tempo, perché il tempo del gioco è un tempo magico e sospeso. Le capacità immaginative connesse al gioco hanno infatti bisogno di un tempo e di uno spazio che è necessario concedere al bambino. Anche la famigerata noia, che a volte mette tanto in difficoltà gli adulti che hanno a che fare con il piccolo, può diventare uno spazio creativo. Addirittura può essere considerata un diritto dei bambini, che spesso cozza con la nostra difficoltà di adulti di tollerare il vuoto e il silenzio. È infatti in questo spazio apparentemente vuoto che si crea la magia dell’intraprendenza, della fantasia, della creatività. Spazio vuoto non significa solitario: la mamma e il papà ci sono non per “riempire” né per dirigere, ma per “stare con” (anche in silenzio), senza aspettative e senza pretese, lasciando che sia il bambino a guidare la danza, “atterrando” alla sua altezza (anche fisicamente), coltivando con lui la spontaneità, il coinvolgimento, la possibilità di controllare, seppur per breve tempo, il mondo intorno.
Quando giochiamo con un bambino senza giudizio, quindi senza interpretare ciò che fa o dice ma semplicemente accompagnandolo, abbiamo altresì un buon modo per conoscere meglio il nostro bambino: quali giochi sceglie? Quali personaggi interpreta? Che cosa dicono i suoi personaggi? Ma anche: quale ruolo chiede a noi grandi di mettere in scena? Attivo o passivo? Il buono o il cattivo?

Gioco e sviluppo

Il gioco è anche un primo indicatore dello sviluppo del bambino. Sinteticamente, possiamo affermare che tra i 4 e i 6 anni il gioco inizia a diventare espressione delle proprie dinamiche interne. Attraverso il gioco di ruolo («Facciamo che io ero la principessa e tu eri la strega…») il bambino può mettere in scena e manifestare il proprio mondo interiore, le proprie emozioni, talvolta le proprie paure e i propri desideri, anche assumendo il ruolo di altre persone o oggetti.
Ciò è facilitato anche dallo sviluppo del linguaggio che si fa sempre  più complesso e con frasi sempre più lunghe. Questo processo si affina tra i 6 e i 10 anni, quando, oltre alle caratteristiche imitative di cui già abbiamo detto per la fase precedente e che diventano via via sempre più simboliche, i giochi sono anche caratterizzati dalle regole e per questo si possono svolgere in gruppo. Questo fa sì che il bambino impari a stare con gli altri anche rispettando delle regole per garantire il buon funzionamento del gioco.

Giocare per imparare a “risolvere problemi”

Se il genitore non dirige il gioco, ma segue l’azione del bambino e rispetta le abilità del piccolo di “risolvere i problemi” che si presentano senza anticiparli e senza risolverli al posto suo, il bambino può essere aiutato a imparare piccole strategie di risoluzione (problem solving), che possiamo poi richiamare nelle situazioni difficili, per esempio quando dichiara di non essere in grado di affrontare determinate situazioni.
“Giocare” fa rima con “ascoltare”, è infatti spesso il modo migliore grazie al quale possiamo ascoltare il nostro bambino ponendo le basi di un dialogo che va oltre, spesso, i gesti e le parole.

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di Marialuisa Damini
PhD in Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione, counselor professionista, esperta in processi educativi e formativi.

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